Introduzione – Massimiliano Devetak
Quando penso al cervello di un bambino, immagino una scultura in divenire: una struttura plastica, pronta a modellarsi e prendere forme diverse a seconda delle esperienze che vive.
Con le sue conoscenze, Valeria ci accompagna alla scoperta di come questa scultura si sviluppa, esplorando i processi che ne determinano la crescita e le modalità con cui possiamo favorirne l’evoluzione.
Articolo – Valeria Voli
Quante volte da genitori, da educatori e insegnanti, ci siamo chiesti “cosa frulla nella mente del bambino?” e la domanda è rimasta a mezz’aria…
Oggi proviamo a vedere cosa sappiamo dei processi cognitivi che
rendono la mente del bambino una vera e propria rete di comunicazioni complesse e affascinanti.
Il cervello umano (inteso come encefalo e cerebellum), insieme al midollo spinale e a tutto il sistema nervoso periferico, ha sete di esperienze sin dal primo istante di vita, ancora nel grembo materno.
I bambini si muovono, infatti, nell’utero della madre, sperimentando attraverso il senso del tatto (con lo sfregamento della pelle immersa nel liquido amniotico e contenuta nel sacco amniotico) e attraverso la propriocezione cinestesica, imparando a conoscere la posizione dei propri segmenti corporei nello spazio. Impara inoltre a distinguere le prime differenze di gusto, assaggiando il liquido in cui è immerso, e pian piano discrimina suoni e variazioni di luce.
A tutto questo si aggiunge la percezione che il bambino ha, già nel grembo
materno, dei diversi stati emotivi della sua mamma, che sente mediante il cambio di produzione ormonale.
Quando il bambino viene alla luce, già nei primi mesi, impara a giocare: gioca attraverso il proprio corpo, e il gioco è sempre sinonimo di sperimentazione corporea: il bambino si muove e attraverso i sensi impara a conoscere la realtà. Impara a riconoscere i colori, gli odori, i sapori, ma anche la consistenza dei materiali che gradualmente manipola con sempre maggiore dimestichezza, e che cerca di comprendere anche mediante l’esplorazione con la bocca.
A tutto questo, si aggiunge che nell’essere umano è presente l’urgenza di conoscere la realtà attraverso gli schemi motori di base: camminare, correre, saltare, arrampicarsi, strisciare, rotolare, afferrare, lanciare. Se ci soffermiamo su questi 8 codici di movimento, riconosciamo facilmente i tentativi dei bambini, di esperire su ciascuno di questi piani in modo eguale. Un bambino lasciato libero, infatti, vorrebbe potersi arrampicare esattamente come lo si lascia camminare, vorrebbe poter saltare, correre, rotolarsi e lanciare con la stessa naturalezza con cui lo si lascia fare alcuni passi. I codici di comportamento sociale, tuttavia, impongono che vi siano gesti più accettati ed altri no (nessun adulto penserebbe di potersi arrampicare sugli stipiti di una porta nell’ufficio del comune in cui lavora. Eppure dal punto di vista strettamente motorio potrebbe essere un modo per mobilitare le articolazioni e i muscoli dopo un tempo prolungato passato in posizione seduta).
Premesso tutto ciò, proviamo a porre uno sguardo sul gioco spontaneo del bambino nei primi anni di vita.
Cosa accade nella sua mente? Possiamo dare alcuni spunti di riflessione, per fare luce sulla complessità ed al contempo sull’urgenza di dare alle nuove generazioni sempre più possibilità di fare esperienze di gioco senso-motorio e simbolico ricche e soddisfacenti, per garantire agli adulti di domani la possibilità di maturare un sistema nervoso veramente competente, sia sul piano delle facoltà del pensiero, sia sul piano delle possibilità di movimento e quindi di salute organica globale.
Il bambino, dunque, spontaneamente prova: prova a salire, prova a spostare, a lanciare, ad afferrare e tirare. Prova perché questo gli dà informazioni che vengono registrate. La specie umana, a differenza di altre specie meno evolute, ha bisogno di moltissime ripetizioni per potersi fare un’idea di realtà.
Cosa significa?
Facciamo un esempio. Konrad Lorenz, famoso etologo del secolo scorso, ci illuminò sulla finestra temporale assai ristretta che hanno i paperotti appena usciti dall’uovo schiuso, per identificare la figura di riferimento, che possiamo chiamare “madre”. Lorenz, facendo schiudere un uovo in incubatrice artificiale, divenne per l’appunto la figura “madre” di una paperetta che chiamò Martina, e che prese a seguirlo in ogni dove e in ogni quando, esattamente come un cucciolo fa con la figura di riferimento. Per i paperotti è necessario pochissimo tempo per “farsi un’idea e prendere una decisione”. Il sistema nervoso centrale umano, invece, ha bisogno di tempi molto più lunghi, per accumulare informazioni, decisamente più complesse, riguardo alla realtà circostante. Ha bisogno di molte ripetizioni per poter stabilire un attaccamento sicuro con la
mamma e il papà, ha bisogno di tante ripetizioni per comprendere che se lascia cadere certi materiali dall’alto alcuni si frantumano, altri non si rompono. Ha bisogno di giocare molto la propria forza, per poter capire che c’è un limite oltre il quale può fare male all’altro, ha bisogno di sperimentare innumerevoli volte gli schemi motori di base, per divenire sicuro e costituirsi uno schema corporeo adeguato a poter affrontare compiti motori sempre più complessi.
Quando un bambino gioca in un modo che definiamo senso-motorio (ovvero mettendo in campo le facoltà sensoriali e quelle motorie) crea nella sua mente un’immagine di sé e dello spazio circostante sempre più accurata e precisa. Vengono quindi reclutati neuroni non solo delle aree preposte alla ricezione degli stimoli sensitivi, non solo le aree preposte al controllo dei movimenti, ma anche le aree associative, i neuroni presenti nell’ippocampo che servono a strutturare e sedimentare il ricordo, aree del cervelletto e circuiti neurali dell’apparato vestibolare presente nell’orecchio, aree visive e associative visive…e potremmo continuare. La complessità della comunicazione neurale non si esaurisce, tuttavia, in una registrazione di informazioni e di impulsi, ma chiede anche una rielaborazione consapevole e conscia che giorno dopo giorno conduce alla strutturazione del sé.
Quando un bambino gioca con il corpo, dunque, avviene tutto questo. Ma il gioco senso-motorio non è il solo tipo di gioco che può sperimentare: esiste anche il gioco simbolico. Tale modalità di gioco trova i suoi albori nel conosciutissimo gioco del cucù, che tutti abbiamo fatto nella vita. Giocare al cucù è un modo che la nostra specie ha trovato per condurre il bambino ad assimilare l’idea che se anche non vedo un oggetto, quell’oggetto permane. Farsi l’idea che se anche non vedo per qualche istante l’orsetto dietro la coperta, questo non significhi che l’orsetto è scomparso, è un processo complesso che la coscienza cognitiva impiega qualche tempo per assimilare.
Ciò conduce a comprendere che se anche non vedo la mamma perché è nell’altra stanza, non cadrò nell’angoscia profonda dell’abbandono, ma avrò la serenità di avere assimilato la certezza che l’oggetto-mamma permane anche se è fuori dal senso della vista per qualche momento.
Sulla base di queste esperienze continuate nel tempo, accolte con pazienza anche quando i pianti di protesta del bambino ci dicono che ancora non ha acquisito queste consapevolezze, renderà possibile più avanti un distacco sereno, per il tempo che sarà necessario stare lontano dalle figure di riferimento.
Cosa accade quindi nella mente di un bambino?
Accade prima di tutto che si creino sempre nuove sinapsi, in una dinamicità di potatura e gemmazione continua, dove vengono stabilite connessioni utili e grazie alla ripetizione il sistema nervoso conserva vie di comunicazione che altrimenti (in assenza di ripetizione) vengono pian piano abbandonate. La creazione di sinapsi (accanto ad una vera e propria neurogenesi in alcune specifiche aree) consente al bambino di rendere sempre più profonda la conoscenza dei propri movimenti, che si traduce in abilità coordinative di
sempre più alto livello e anche in autostima.
C’è, inoltre, un’area specifica preposta alla processazione di informazioni sempre più articolate, ed è la corteccia orbito-frontale. Questa zona, in modo particolare, consente all’essere umano di maturare razionalmente e imparare a porre pensieri sempre più profondi sulla realtà circostante e su di sé: quest’area va a maturazione tra i 21 e i 25 anni di età. (Questo spiega perché è chiesta tanta pazienza agli adulti che accompagnano l’infante, il fanciullo, l’adolescente e il giovane adulto nel processo evolutivo). Quando un bambino gioca, nel gioco simbolico, tenta di rielaborare la realtà sia negli aspetti rassicuranti di essa, sia negli aspetti ancora meno compresi, e quindi più indigesti (spaventosi, noiosi, incomprensibili, etc).
Accompagnare il bambino in queste fasi di crescita, consentendogli di sperimentare gioco senso-motorio e simbolico in modo equilibrato e quotidiano, almeno fino ai 12 anni, è un modo semplice e alla portata di
tutti per poter strutturare una relazione di attaccamento sicuro, colmo di fiducia, con i propri figli e alunni.
Dare spazio all’ascolto della persona nella sua globalità (corpo e mente non sono scissi, come abbiamo visto) consente all’adulto di creare un terreno di conoscenza reciproca che pone le basi irrinunciabili per offrire agli adulti di domani le radici della propria serenità e della propria apertura all’altro da sé.
Valeria Voli
Dott.ssa in Scienze Motorie preventive e adattate alla disabilità
Dott.ssa magistrale in Scienze Pedagogiche
Dott.ssa in Scienze e Tecniche Psicologiche
Psicomotricista ASEFOP
Insegnante di massaggio infantile AIMI
Socio MENSA tessera n. 6907
WEB: Pedagogia Elastica